La mostra, la luce e quella rivelazione silenziosa chiamata Alina Marley
Non so quante volte io abbia attraversato le sale del Museo Ettore Archinti di Lodi, ma ogni volta succede qualcosa di diverso. Questa volta, il pretesto era “Parole dipinte”, una mostra che racconta la lettura nella pittura tra Ottocento e Novecento. Un tema semplice, quasi domestico, e proprio per questo capace di aprire mondi.
Entrando, si ha la sensazione di muoversi dentro una galleria di attimi sospesi: persone colte nel gesto di leggere libri, spartiti. Il percorso è costruito con quella cura inconfondibile che riconosco da tempo: la competenza storica di Marina Arensi, sempre precisa e appassionata, si intreccia perfettamente con quella di Vittorio Vailati, che porta equilibrio e profondità. Un binomio che, per quanto mi riguarda, è una certezza: ogni mostra curata da loro è pensata, contestualizzata, raccontata con un rigore che non pesa mai e che, anzi, accompagna chi osserva.
La prima tela a imporsi è quella di Carlo Zaninelli. Impossibile ignorarla: è grande, teatrale, piena di presenza. Raffigura Giovanni Battista Pergolesi, il compositore settecentesco, interpretato dal modello Angelo Corazza. Zaninelli costruisce la scena come un piccolo teatro privato: gesti misurati, postura impeccabile, luce calibrata per farsi guardare.
C’è anche un dettaglio, rivelato dalla curatrice, che mi ha strappato un sorriso: Pergolesi è davanti a un fortepiano, strumento che ai suoi tempi non esisteva ancora. Un anacronismo affettuoso, quasi un vezzo del pittore, che appartiene più al suo mondo che a quello del musicista. Il collezionista pavese che lo possiede è giustamente orgoglioso di mostrarlo: è una tela che riempie lo spazio e sa di esserlo.
Tuttavia, non è l’unico autore interessante del percorso.
Al contrario: la sala offre una sfumatura diversa della lettura, ogni pittore ha un suo modo di avvicinare il gesto, di interpretarlo, di farne una micro-storia. Le descrizioni di Marina – accurate, vive, piene di riferimenti che non appesantiscono mai – tengono insieme tutto con una leggerezza che è frutto di studio serio, non di improvvisazione. È una qualità rara: raccontare un quadro senza coprirlo.
Presenza immancabile e graditissima una delle sculture di Ettore Archinti "La maestrina".
L'unica donna
E poi, dopo tutto questo protagonismo maschile e scenico, arriva lei. L’unica donna della mostra: Alina Elisabetta Marley.
Da qui il percorso trova la sua pausa necessaria. Perché Marley, a differenza dei pittori della mostra, non mette in scena nulla. Non costruisce un personaggio, non inventa un’epoca, non interpreta un ruolo. Dipinge sé stessa mentre legge. Fine.
Questo, per me, è stato il punto di svolta.
Il suo autoritratto è intimo, raccolto, quasi silenzioso. Marley non ci guarda. Non ci chiede attenzione. Non fa nulla per attirarla. È immersa nella pagina, nella luce morbida che le scende sul viso e sulle spalle. Una luce che racconta più di mille parole: la luce di chi vive nel pensiero, nello studio, nella concentrazione.
La sua storia rende tutto ancora più nitido: nata in una famiglia milanese legata all’editoria da parte della madre, frequenta il liceo Parini e dipinge fin da ragazza. Non è un passatempo: espone alla Permanente di Brera nel 1938, 1939 e 1940. Poi la guerra, e poi una vita che si sdoppia: si laurea in Lettere, poi in Medicina, si specializza in Radiologia, diventa docente di Radiologia e Anatomia Umana a Pavia. Una donna che attraversa due mondi senza fratture apparenti: la scienza dei corpi e la poesia della luce.
Questa è la luce della sua cifra pittorica. Una luce che protegge invece di esporre, che accompagna invece di giudicare. Una luce pensata da qualcuno che ha osservato molto più di quanto abbia preteso di essere visto.
In mezzo a tele più grandi, più appariscenti, più compiaciute, il suo quadro – discreto, raccolto, concentrato – è quello che mi ha affascinata di più. Perché non cerca di essere visto. Non ti invita a guardarlo ma ti obbliga a fermarti.
In un luogo in cui la lettura diventa spesso scena o allegoria, Marley ci ricorda che leggere è, prima di tutto, un luogo interiore.
È proprio questo che mi ha colpita: che, in un percorso fitto di racconti, la rivelazione arrivasse da chi parlava più piano.
Zaninelli e Marley:
due modi di leggere, due modi di essere
La luce, il volto è rivolto verso lo spartito, la postura è costruita per essere vista. È una scena, un teatro, un momento pensato per il pubblico.
Alina Elisabetta Marley, invece, fa il contrario.
Non cerca spettatorə: si ritrae mentre legge, immersa nella propria luce calda, senza interrompere il gesto. Nessuna posa, nessun artificio, nessuna esigenza di apparire.
Il primo mostra un personaggio.
La seconda rivela una persona.
In questo passaggio dal pubblico al privato, dalla rappresentazione all’intimità, dalla luce teatrale alla luce interiore, la mostra trova il suo punto più forte – e, almeno per me, il suo vero significato.
Le domande che restano
"Chissà dove aveva imparato a dipingere Alina Marley.
Chissà perché aveva iniziato, cosa avrebbe voluto raccontare ancora, quali quadri non ha mai avuto il tempo di fare.
Chissà se si era immaginata pittrice professionista, o se per lei la pittura era semplicemente un luogo dove tornare, uno spazio silenzioso che la vita non è riuscita a cancellare?"
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