Letizia Battaglia e il senso della fotografia oggi

Foto © copyright Shobha

In questi tempi in cui si discute di limitare libri, film, fiction e fotografie che raccontano la criminalità organizzata, sento urgente condividere un mio ragionamento su chi l’ha raccontata davvero: Letizia Battaglia. Lo fece con coraggio, con la macchina fotografica come strumento di denuncia, in un’epoca in cui molti e molte ancora affermavano che la mafia non esistesse. E lo fece assumendosi rischi concreti, dentro le strade, le case, la vita quotidiana delle persone.

 "Ho imparato così: guardando, leggendo, stando al mondo"

Letizia Battaglia si è sempre definita autodidatta. Non per rifiuto delle influenze, ma per una scelta di responsabilità. Prima ancora che fotografa, è stata una militante. La fotografia arriva come strumento, non come fine: un mezzo per stare dentro la realtà, denunciarla, attraversarla.

Nel libro Mi prendo il mondo ovunque sia (Einaudi, 2020), Battaglia racconta il suo percorso di formazione fatto di riviste, libri, mostre, cinema, musei. Non una scuola, ma una costellazione di sguardi. In questo racconto compaiono anche Diane Arbus e Mary Ellen Mark: le sue “maestre” in senso personale, non accademico, figure che le hanno mostrato come entrare in relazione con le persone, guardare chi viene normalmente rimosso, vivere la strada con occhi curiosi e attenti.

La militanza

Non si tratta di filiazioni dichiarate, né di genealogie da manuale. Lo sguardo di Letizia nasce altrove: nella militanza, nell’urgenza politica, nella necessità di documentare. L’unico riferimento fotografico esplicitamente riconosciuto da lei come maestro è Josef Koudelka. Tutto il resto è dialogo, consonanza, attraversamento. Quando Battaglia inizia a fotografare per i giornali, il tempo non è un lusso. Le sue immagini nascono dentro l’urgenza della cronaca: omicidi, arresti, funerali, strade segnate dalla violenza mafiosa. Fotografare, allora, non è contemplazione. È testimonianza. È denuncia. È dire a tuttə: "guardate cosa sta succedendo".

La mafia non esiste

C’è una fotografia di Letizia Battaglia che continua a tornarmi addosso quando penso al senso della fotografia di denuncia. Una donna con i suoi bambini, tutti stesi nello stesso letto. In casa non c’è luce, non c’è acqua. Palermo, 1978. Non è una scena di violenza esplicita, non è cronaca nera, eppure è una fotografia profondamente politica.

La donna e i suoi bambini stanno sempre a letto. In casa non ci sono né luce né acqua. Palermo, 1978.
Fotografie di Letizia Battaglia. ©Archivio Letizia Battaglia

Perché racconta ciò che allora molti continuavano a negare: che la mafia non era solo sparatorie e cadaveri, ma un sistema capace di produrre miseria, esclusione, vite lasciate senza alternative. Fotografare quella stanza significava rompere il racconto rassicurante di un Sud folkloristico o innocente. Significava dire che la mafia esisteva eccome, ed era già dentro le case, nei corpi, nelle condizioni di vita. Come molte immagini di Battaglia, anche questa ha contribuito a rendere visibile ciò che per troppo tempo si è fatto finta di non vedere. Non per scioccare, ma per costringere a prendere posizione.

Il legame

Ma non tutta la sua fotografia passa dal trauma immediato, dal sangue, dalla cronaca nera. C’è anche un altro tempo, più lento ma non meno politico: quello in cui la fotografia osserva ciò che tiene insieme le persone. Assemblee, incontri, corpi che occupano uno spazio e una parola che circola. È sempre reportage, ma non dell’evento: del legame.

Nella fotografia scattata da Letizia Battaglia a Franca Rame, all’interno della Palazzina Liberty di Milano nel 1974, questo emerge con chiarezza. Franca Rame è in primo piano, sulla destra dell’inquadratura. Il corpo è ruotato verso sinistra, il braccio destro teso a indicare qualcosa fuori campo. Intorno a lei, una folla eterogenea: persone molto giovani al centro della stanza, altre più adulte tutt’attorno. 

Franca Rame all’interno della Palazzina Liberty a Milano (1974).
Fotografie di Letizia Battaglia. ©Archivio Letizia Battaglia

Non c’è palco, non c’è separazione netta. La fotografia restituisce un momento di parola condivisa, di ascolto reciproco. Battaglia non enfatizza, non isola. Registra una relazione.

La responsabilità

In questo senso, le fotografie di Letizia Battaglia interrogano anche il presente. In un momento storico in cui si torna a discutere se e come raccontare la mafia, se limitare libri, film o narrazioni considerate “scomode”, il suo lavoro ricorda che il problema non è l’eccesso di racconto, ma il silenzio. 

Capaci

Non si documenta per spettacolarizzare, ma per rendere visibile ciò che altrimenti verrebbe rimosso. La fotografia di reportage, quando è onesta, non mitizza il potere: lo espone. E chiede a chi guarda di assumersi una parte di responsabilità.

Nota sulle immagini

Le fotografie di Letizia Battaglia presenti in questo articolo sono pubblicate su autorizzazione dell’Archivio Letizia Battaglia.©Archivio Letizia Battaglia

La fotografia di Letizia Battaglia utilizzata per la copertina del libro Mi prendo il mondo ovunque sia è stata realizzata da Shobha Angela Stagnitta ed è pubblicata in questo articolo con il suo consenso.

Le immagini sono utilizzate in bassa definizione, nel rispetto dei diritti d’autrice e della responsabilità che ogni fotografia di denuncia porta con sé.

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