Mary Ellen Mark: stare con le persone, non sopra di loro

 

Mary Ellen Mark non mi ha mai dato l’idea di una fotografa “interessata ai margini”. Lei stava nei margini. Non li osservava da fuori, non li usava come soggetto forte per un progetto riuscito. Ci entrava con il corpo, con il tempo, con una presenza che non cercava di addomesticare nessuno.

Guardare al pari

Le sue fotografie parlano di persone considerate difficili, scomode, fuori norma. Bambinə, adolescenti, donne, persone rinchiuse, corpi che non rientrano nelle categorie rassicuranti. Ma non c’è mai compiacimento, né distanza. Non c’è nemmeno quella pietà un po’ elegante che spesso accompagna la fotografia “sociale”. Mary Ellen Mark guarda da pari. E questo, nella fotografia, è tutt’altro che scontato.

Una cosa che colpisce del suo lavoro è il tempo. Mark non arriva, scatta e se ne va. Torna. Rimane. Costruisce relazioni. Le sue immagini non sono furti, ma esiti di una presenza. È una fotografia che non pretende neutralità, perché la neutralità non esiste. Esiste la responsabilità.

Senza cercare il consenso

Forse è anche per questo che il suo lavoro continua a parlare oggi, in un’epoca in cui tutto è veloce, immediato, consumabile. Le sue fotografie non chiedono di essere “capite”, ma di essere sostenute. Ti mettono davanti a qualcuno e ti dicono: adesso non puoi far finta di niente. Quando penso a Mary Ellen Mark, penso a una fotografia che non cerca consenso. Che non addolcisce. Che non semplifica. Una fotografia che accetta il rischio di restare addosso, di disturbare, di non essere subito digeribile. Ed è forse proprio qui che il suo lavoro incrocia quello di altre fotografe militanti, capaci di usare la macchina fotografica come strumento politico prima ancora che estetico.

 

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