Qualche giorno fa mi è arrivato in visione un libro dal titolo che, a prima vista, pare provocatorio: Dimenticare la fotografia, di Andrew Dewdney (postmedia books 2023). L’ho aperto con curiosità, perché solo il titolo basta a far tremare chi, come me, vive e racconta attraverso le immagini.
La tesi dell’autore è chiara: la fotografia, così come l’abbiamo conosciuta, è morta. «La fotografia è ovunque, ma non come l’abbiamo conosciuta; da tempo è un non-morto, uno zombie» scrive Dewdney. Una definizione spiazzante, che mi inquieta. Guardandoci intorno, tra smartphone e social, sembra quasi avere ragione: le immagini si moltiplicano fino a perdere significato, diventando una sorta di rumore di fondo.
Ma il suo non è solo un discorso quasi “apocalittico”. Dewdney prova a leggere il percorso storico della fotografia: la sua istituzionalizzazione nel Novecento, l’ingresso nei musei e nelle accademie, che l’ha trasformata in un apparato più conservativo che rivoluzionario. Un po’ come la monarchia britannica: paradossalmente ridondante, ma ancora in funzione. In questa chiave, “dimenticare la fotografia” non significa cancellarla, ma accelerare la comprensione delle nuove immagini nate dalle reti digitali, che oggi modificano costantemente il nostro modo di vedere e di agire.
Una tomba antica
Questo approccio mi ha davvero fatto pensare. La fotografia analogica, quella di pellicole e ingranditori, quella che per decenni abbiamo associato al “vero” e al “documento”, oggi non esiste più come prima. Si è dissolta nella produzione di massa e nel flusso visivo costante.
La fine della fotografia
E poi c’è un punto che mi torna in mente: ogni volta che la fotografia si è resa più accessibile, qualcuno ha gridato alla sua fine. È successo quando le prime macchine “per signore” promettevano facilità d’uso, quando la Polaroid ha tolto l’attesa dello sviluppo, fino agli smartphone che hanno messo una fotocamera in ogni tasca. Ogni passo che democratizzava lo sguardo è stato percepito come una minaccia dai professionisti della fotografia. Lo aveva già spiegato bene Gisèle Freund in Fotografia e società – cui ho dedicato anche 👉un articolo nel blog – mostrando come fin dall’Ottocento la fotografia fosse accusata di svalutare l’arte proprio perché diventava popolare. Eppure, è proprio in quell’apertura che il mezzo ha trovato nuova linfa, sfuggendo sempre a chi voleva ingabbiarlo.
La fotografia che scuote
Lo vedo anche oggi nei tanti festival che animano l’Italia: dal Festival della Fotografia Etica a Lodi a Cortona On The Move, da Si Fest a Savignano a Fotografia Europea di Reggio Emilia, fino al Festival della Fotografia Italiana a Bibbiena, organizzato da FIAF, e molti altri. Luoghi dove la fotografia torna ad avere senso, a scuotere, a denunciare. Lì le immagini sanno ancora toccare nervi scoperti e rivelare ciò che spesso preferiamo non vedere.
La fotografia non è mai neutra
Penso a Samar Abu Elouf, la fotoreporter di Gaza che ho raccontato 👉in questo articolo. Le sue immagini sono resistenza concreta: non documentano da lontano, ma scelgono di stare dentro le vite che raccontano, raccogliendo frammenti di umanità tra le rovine. Guardare i suoi lavori significa capire che la fotografia non è mai neutra, ma una scelta di posizione, spesso rischiosa e necessaria.
Sono storie che ho provato a riportare nel mio blog e che trovi raccolte in questa pagina 👉 Le Fotografe!
Il libro invita a «rompere con il modo di pensare e di essere della fotografia», per me il compito è ricordare, scegliere con cura le immagini che contano, non per nostalgia ma per dare continuità a storie che rischiano di essere inghiottite dal rumore visivo.
Allora mi chiedo: dobbiamo dimenticare solo certi usi — quelli superficiali, automatici, che la riducono a selfie e pubblicità — per tornare a un’immagine che sa ancora aprire varchi, che sa diventare memoria e relazione?
Per non parlare dell'AI ...
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