Cara Cecilia,
ti scrivo da un’Italia che non è poi così diversa da quella che hai raccontato tu. È cambiato tutto, ma in fondo non abbastanza. C’è ancora chi viene lasciatə ai margini, chi non ha voce, chi non ha un volto nei telegiornali. E allora torno a guardare le tue immagini, i tuoi film, i tuoi volti pieni di realtà.
Nel documentario Il mondo a scatti parli della tua giovinezza nell’Italia fascista. Racconti di quando le ragazze, per la prima volta, potevano uscire di casa per marciare insieme agli uomini. “Ci facevano sentire importanti”, dici, “parte di qualcosa di grande”. Ma poi, alla fine della guerra, quando tutto crollò, ti accorgesti che quella libertà era solo un’illusione. Ti volevano di nuovo in casa, a cucinare, a rammendare, a tacere. E tu, invece, no. Non volevi più tornare indietro. È lì, credo, che nasce la tua vera rivoluzione: nella scelta di restare fuori, di camminare nel mondo con uno sguardo libero e curioso.
Sei vissuta in un’epoca in cui le ragazze “per bene” non dovevano fumare né fotografare per strada, hai deciso di farlo lo stesso — e di farlo bene. Senza paura del giudizio, con quella grazia impertinente che è propria di chi sceglie di vivere, non solo di obbedire. Avevi sempre con te la macchina fotografica: pedinavi il mondo, come se volessi sorprenderlo in flagrante mentre si raccontava da solo.
Ti ho incontrata tardi, devo confessarlo. Non in un’aula universitaria, ma in un fotogramma su internet, poi in un tuo documentario su RaiPlay. Era come se la tua macchina da presa sapesse esattamente dove guardare. “Ho sempre raccontato chi non aveva voce”, dicevi. E in quella frase c’è tutta la tua vita, tutto ciò che la fotografia e il cinema dovrebbero ancora essere: non spettacolo, ma testimonianza. Mi affascina il tuo coraggio.
Sei stata la prima documentarista in Italia, e non hai chiesto il permesso a nessunə. Hai camminato nei quartieri popolari del dopoguerra con la tua macchina fotografica al collo, hai filmato bambinə scalzə e donne stanche, senza mai pietismo. Solo verità, solo dignità. In quegli anni il Paese voleva dimenticare la povertà per inseguire il “miracolo economico”, ma tu no: tu restavi lì, ferma, a guardare.
Ricordo una scena dello stesso documentario: racconti di quando, giovanissima, ti presentasti al Centro Sperimentale di Cinematografia per chiedere come si facesse a diventare regista. Ti guardarono “strana”, come se avessi detto un’assurdità. Ti dissero che una donna poteva al massimo fare l’attrice, o la costumista.
Ma tu non accettasti quella risposta. Ti inventasti un modo tuo di essere regista: partendo dalla fotografia, attraversando il montaggio, imparando tutto da sola. Quella ribellione tranquilla, quella tua ostinazione gentile, è forse la lezione più grande che ci hai lasciato: non aspettare che qualcunə ti dia il permesso di fare ciò che senti necessario.
Quando collaboravi con Pasolini, nel tuo Ignoti alla città, sapevi già che la periferia non era solo un luogo, ma una ferita. E quando, insieme a Lino Del Fra, hai girato All’armi siam fascisti!, hai ricordato a tuttə che la memoria non è un esercizio scolastico ma una responsabilità civile. “Ho sempre pensato che la macchina da presa fosse un’arma”, dicevi — e lo era davvero, la tua. Penso a quanto fosse scomodo, allora, essere una donna che filmava e parlava di politica. Eppure la tua voce non ha mai tremato. Oggi, in un tempo saturo d’immagini ma povero di sguardi, mi chiedo come avresti raccontato questa Italia: le nuove periferie digitali, i corpi invisibili dietro gli schermi, le nuove solitudini. Forse con la stessa lucidità, con la stessa pietà laica, senza indulgere alla retorica.
Essere Donne - Regia: Cecilia Mangini - Casa di produzione: Unitelefilm- Anno: 1964
Ti immagino ancora, con la tua ironia tagliente, dire: “Non bisogna mai smettere di essere curiosə”.
E mi torna in mente un’altra tua frase, che custodisco come una verità semplice e assoluta: “La fotografia recupera il tempo, lo spazio, le sensazioni”.
E poi c’è quel tuo pensiero che continua a risuonarmi dentro: dicevi che forse “moriamo” nel momento in cui non siamo più capaci di interpretare, vedere, raccontare ciò che ci circonda. Ma che proprio allora possiamo rinascere — tornare a essere fotografe di un mondo che continua a cambiare, perché anche noi cambiamo con lui.
È esattamente questo, credo, il senso più profondo del tuo sguardo: la fotografia come atto di resurrezione, come dialogo continuo tra ciò che siamo e ciò che il mondo ci rimanda. E tu lo sapevi bene: quando, ultranovantenne, raccontavi che avresti dovuto interpretare in un film il ruolo di una donna che moriva e risorgeva, dicevi ridendo che quell’esperienza ti avrebbe “allargato la vita”. E in fondo è proprio così: ci hai insegnato che si può rinascere infinite volte — basta avere ancora voglia di guardare.
Cara Cecilia,
non sei mai davvero andata via. Sei ancora lì, in ogni foto che resiste al silenzio e in ogni immagine che prova a cambiare il mondo. E noi, con le nostre macchine fotografiche, continuiamo a camminare accanto a te..
Nota
Cecilia Mangini (1927–2021) è stata fotografa, documentarista e sceneggiatrice. Considerata la prima documentarista italiana, ha firmato opere che hanno raccontato l’Italia del dopoguerra, le sue contraddizioni e le sue lotte sociali.
Tra i suoi lavori più noti: Ignoti alla città (1958, testi di Pier Paolo Pasolini), Stendalì – Suonano ancora (1960), All’armi siam fascisti! (1962)





